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Legendary Songs: Space Oddity

È il 1969. In America c’è il movimento contro la guerra in Vietnam e c’è quello per i diritti civili, in Europa lo scontro è forse ancora più duro sull’ideologia: ci sono i miti del ’68 e gli eroi del Terzo Mondo in lotta contro il capitalismo. C’è un’inevitabile corsa alla modernizzazione tecnologica spinta dalla guerra fredda tra Usa e URSS. C’è molta droga.
Ci sono tutti i pretesti e tutti i segnali di un possibile cambiamento. Si sta per entrare nella crisi degli anni ’70, dalla quale se ne uscirà negli ’80. Immezzo a tutto ciò c’è David Bowie, come comparsa prima, come simbolo di una rivoluzione sociale (oltre che musicale) poi.

Ma restiamo nel 1969: è il 3 giugno e nelle tv di quelli che verrebbero oggi etichettati come “Nerd” risuona «Diario del Capitano. Data astrale 5928.5…». È l’incipit di quella che sarebbe stata l’ultima puntata di “Star Trek”. Passa un mese circa, è il 14 luglio, e nelle sale cinematografiche un’intera generazione sogna un’avventura su una motocicletta simile a quelle di “Easy Rider”. Non è ancora stato fatto Woodstook. Nelle radio e nelle tv non si fa altro che assistere a quella che sicuramente fino a questo momento è la sfida più importante affrontata dall’uomo: lo sbarco sulla luna. Ad accompagnare l’impresa è la canzone di un cantautore di Brixton: si fa chiamare David Bowie, ha ventidue anni e la canzone lanciata dalla NASA è Space Oddity.

Più volte è stata manifestata la perplessità da parte di Bowie sulla scelta da parte della NASA di trasmettere il suo brano. Quella di Space Oddity non è di certo una storia a lieto fine: il protagonista, Major Tom, è un astronauta emotivamente instabile che si autocondanna a una morte solitaria nelle desolate profondità dello spazio. Come spesso succede con le grandi canzoni, sono stati ipotizzati dei significati ulteriori all’interno della canzone ma, come ha in un’intervista dello stesso anno dichiarato Bowie, non ce ne sono: “Ci tengo moltissimo ad essere riconosciuto come autore, ma non vorrei si cercasse chissà cosa nelle mie canzoni. Non bisogna far altro che ascoltare le parole […]”. È un Bowie ancora legato agli anni ’60, a Dylan, non è ancora nato Ziggy Stardust. Il suo secondo album non è di certo un capolavoro. C’è ancora molta confusione, molto conflitto tra passato e futuro, proprio come la storia di quegli anni. Ma per sua fortuna e bravura c’è un pezzo che guarda sicuramente al futuro, destinato a diventare una canzone leggendaria: Space Oddity appunto. La canzone, ispirata al film di Stanley Kubrick “2001: Odissea nello spazio”, uscito nel dicembre dell’anno prima, parla appunto del Maggiore Tom. Una volta riuscito il lancio dell’astronave, il protagonista si trova completamente solo a contemplare l’enorme grandezza della terra e dello spazio. Percepisce la sua impotenza in confronto, nonostante non sembra soffrirne. Poco dopo si compie la tragedia, quando decide di abbandonare la navicella per perdersi nello spazio

“Though I’m past one hundred thousand miles                                                                                                                                                                             I’m feeling very still
And I think my spaceship knows which way to go
Tell my wife I love her very much she knows”

“Malgrado sia lontano più di centomila miglia,
Mi sento molto tranquillo,
E penso che la mia astronave sappia dove andare
Dite a mia moglie che la amo tanto, lei lo sa”

Bowie utilizza il maggiore Tom per esprimere un sentimento che ogni persona può provare: la solitudine. Si tratta di un sentimento intrinseco nell’uomo per natura sembra dirci, è quasi fisiologico. Il resto dell’album non avrà avuto chissà che successo, ma è stato di certo anche grazie a questo singolo-capolavoro che è scoppiato, a mio modo di vedere, il più grande artista di tutti i tempi.

Giacomo Russello

Woodstock 1969-2019

1969. Siamo nel pieno dello scontro tra le maxi potenze di Stati Uniti e URSS. Le elezioni americane portano alla Casa Bianca Richard Nixon che, a pochi mesi dall’inizio del suo mandato presidenziale, con lo sbarco sulla luna dà dimostrazione in diretta mondiale della superiorità degli americani sui russi. 

È un anno di grandi tensioni e profonde trasformazioni. Si conclude un decennio che ha visto nascere il fenomeno Beat, il movimento Hippie, le marce contro la guerra in Vietnam, le battaglie per i diritti dei neri e degli omosessuali. Sono gli anni dell’erba e dell’LSD, segnati dall’urgenza di sovvertire l’ordine prestabilito delle cose e cambiare il mondo,  scanditi dalla ricerca di nuove forme di aggregazione sociale, e da un dirompente desiderio collettivo di trovare nuovi metodi di espressione artistica. Un’intera generazione è coinvolta in quella che è probabilmente la rivoluzione sociale più importante del Novecento.

05 Nov 1968, Des Moines, Iowa, USA — Original caption: 11/05/1968-Des Moines, IA- Participants in a Students for a Democratic Society-sponsored demonstration display signs protesting the general election as a “hoax” and calling for peace in Vietnam. The demonstration was staged on the steps of the Iowa capitol building after a three-mile march under police supervision. — Image by © Bettmann/CORBIS

Mentre in Italia viene proclamata vincitrice del festival di Sanremo Zingara di Bobby Solo e Iva Zanicchi, negli Stati Uniti risuona per le strade la musica di Bob Dylan, dei Rolling Stones, di Jimi Hendrix, Jenis Joplin, degli Who e dei Creedance Clearwater Revival.

Nelle vie di Londra invece, più precisamente ad Abbey Road, i Beatles scattano la foto che farà da copertina al loro ultimo Lp registrato in studio e che proprio da quella strada – a cui è ispirata gran parte del vinile – prenderà il nome. Parti di quel 33 giri vengono invece  incise in altri due studi di Londra, tra cui gli Olympic Studios. Caso vuole che proprio in quegli studi, nello stesso 1969, nascano Led Zeppelin I e Led Zeppelin II, gli album di esordio del gruppo di Robert Plant. Così, mentre i Beatles escono di scena, entrano i Led Zeppelin… staffetta niente male.

È in questo panorama storico e musicale che quattro giovani, Michael Lang, John P. Roberts, Joel Rosenman e Artie Kornfeld danno vita a quello che nell’immaginario collettivo mondiale è ancora oggi considerato il più grande festival di tutti i tempi. Un evento memorabile che riconduce all’improvvisata Freedom di Richie Havens, alla rivisitazione in chiave rock dell’inno americano di Jimi Hendrix, passando per Janis Joplin, Crosby Still, Nash & Young, per i Jefferson Airplane, Santana, Joe Cocker e molti altri. Siamo a Bethel, 80km circa da New York; cinquecentomila ragazze e ragazzi si riuniscono in nome della pace, della musica e della libertà. Saranno spettatori-protagonisti di quel fenomeno universalmente conosciuto con il nome di Woodstock.

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